La spiaggia della foto, che fa parte del mio album personale, è una piccola bellissima spiaggetta a due passi dal centro di Cagliari. Non so se il nume tutelare di questa pagine ami il mare; da alcune notizie lette mi pare di capire che non sia in cima ai suoi desideri, una vacanza al mare, e che il mare non sia proprio il suo elemento naturale. Così ha confidato sottovoce (in un libro che ha avuto poca diffusione, quindi, si, sottovoce) un suo amico, che invece del mare si dichiara appassionato.
Per quanto mi riguarda, pur sapendo che così esattamente non è, ho il vezzo di definirmi donna di montagna in ogni mia fibra. Ho avuto la sorte di nascere da genitori originari di un bel borgo di montagna, inurbati nel capoluogo, come tanti nel dopo-guerra, ma pur essendo nata e cresciuta in una città di mare, mi sento, dentro, creatura di roccia e di bosco. Mi sento molto sarda pellita, e mi diverto a fantasticare su un mio possibile ruolo nell’antica resistenza locale contro l’invasore che veniva dal mare, che infatti, proprio per questo motivo, molti Sardi guardano con una certa diffidenza. Non so se posso avere l’aspetto di sarda pellita; spesso, e anche questo forse è un vezzo, sostengo di avere le sembianze di una dea madre. Il mio "amico" Mimmo Locasciulli, invece, una bella faccia da irredentista vestino, ce l'ha davvero, e lui si, che me lo vedo, nel ruolo di capo della resistenza del suo antico popolo, contro il conquistatore romano.
Per chi non lo sapesse, ma i pochi che entrano qui con la bussola lo sanno bene, e anche per gli altri casuali ospiti son cose che si studiano (studiavano) alle scuole elementari, i Vestini sono uno degli antichi popoli dell’Abruzzo; il nome pare derivare dalla dea Vesta (guardacaso io mi sono autoproclamata vestale del sacro tempio di Mimmo: quando si parla di coincidenze…) e l’antico nome della cittadina natia, Penne, era proprio Pinna Vestinorum. A Penne esiste una strada che si chiama Corso dei Vestini, e ciò testimonia che, nella memoria dei Pennesi d’oggi, il ricordo dell’antico e fiero popolo è ancora saldamente radicato.
Una come me, che annovera nel suo pedigree generazioni e generazioni di pastori poveri, abituati a resistere alle intemperie e a macinar chilometri a piedi o a dorso d’asino, per badare alle sparute greggi, unico sostentamento, dovrebbe essere amantissima della carne di pecora. In realtà, e qui mi attirerò tanti strali da parte degli appassionati del prodotto, io la carne di pecora la odio, non ne posso sentire neppure l’odore, e anche vederla sui banchi delle macellerie non mi procura un gran piacere. Chissà, magari è proprio perché ha costituito per secoli l’unico tipo di carne (a parte la modesta provvista derivata dalla macellazione del maiale allevato in casa) che, non certo spesso, i miei avi potessero permettersi, (pertanto ogni mia cellula deve essere totalmente impregnata di grasso ovino) che io ho probabilmente sviluppato questa intolleranza, senza possibilità di eccezioni.
Sabato scorso il mio chef di fiducia (io ho una vita divisa più o meno a metà, e in ciascuna di queste metà svolgo ruoli diversi: nella prima sono nutrice e quindi cucino, nella seconda sono nutrita, e quindi mangio, e poi “rigoverno”, che le cene me le dovrò pure pagare) per vedere la mia reazione, che cosa mi va a preparare? Un piatto a caso, che ha attinenza con i Vestini, quelli di ieri e quelli di oggi: i famosi arrosticini, che sono degli spiedini di carne di pecora tagliata a piccoli cubi, arrostiti seguendo delle regole ferree, e poi serviti caldissimi, ben disposti su un piatto in cerchio, a formare quasi un fiore. Certo la pecora era sarda, il cuoco, (ottimo) toscano trapiantato in Sardegna, ma l’intento era buono. Anche gli arrosticini sicuramente lo erano, a giudicare dal successo che hanno avuto. Spariti, divorati. Rigorosamete accompagnati da un buon Montepulciano d’Abruzzo, dal quale, senza opporre resistenza alcuna, mi sono lasciata, questa come altre volte, sedurre volentieri. La pecora, no, non mi ha sedotto: non ho assaggiato neppure un cubetto di carne. Il cuoco birbone, che assicura di aver fatto tutto questo lavoro per me, come omaggio alla mia passione abruzzese, mi porgeva uno spiedino, anzi me lo metteva sotto il naso, e proferiva le alate parole: Dai assaggiane uno, su, fallo per amor di Mimmo: pensa a lui e mangiane almeno uno.
Io, per converso: C’è un limite a tutto, e quel limite si chiama pecora; e poi cos’altro devo dimostrare a un uomo cui ho consacrato, da buona vestale, un anno intero della mia vita? Anche stasera ho brindato alla sua salute col Pecorino che mi hai servito come aperitivo, e col Montepulciano durante la cena. Ci manca il passito o lo spumante abruzzese, ma magari la prossima volta rimedieremo. Più di così temo di non poter fare.
Anzi, si, potrei, adesso che ci penso. Se li cucinasse il nume per me, in terra d’Abruzzo, con pecora abruzzese e fuoco e legna abruzzesi, forse potrei fare un tentativo, uno, a patto che il vino d’accompagnamento sia quello che produce lui, e che tra uno spiedino e l’altro Egli suoni la fisarmonica, come di tanto in tanto gli piace fare, e si cimenti in danze tradizionali. Vi sembra troppo? Forse è giunto il momento di sognare in grande stile, conquista dell’età. Viva gli arrosticini. Viva le pecore: se esisto, è anche grazie al loro prezioso apporto, anche se non me ne cibo.
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