Ci pensavo ormai da qualche
giorno, al mio esperimento, al tentativo di entrare in mistica comunione, domenica sera, con la piazza del concerto di
Penne. D’altronde sono io quella con la
vocazione ai segni, alla comunicazione di pensieri, all’empatia, insomma a
tutte queste belle cose alle quali, forse, non sempre è il caso di attribuire
un significato particolare. Ad esempio, se tu prendi per la collottola qualcuno che, poveretto, non ti ha chiesto niente, e da tre anni a
questa parte, a scadenza variabile, ma
costante, quasi fossi sotto contratto e pagata per farlo, lo martelli con i
tuoi editoriali, forse è normale che,
alla fine, ti sembri di intercettarne qualche sconsolato pensiero. “Mollami,
aiuto, basta! Cercatene un altro, il mondo è pieno di cantanti, io non ho fatto
male a nessuno…” “Toh, ancora, eccola, lo sapevo che ci avrebbe ricamato sopra
qualcosa.” Non posso che dare conferma della mia prevedibilità. Sull’attitudine
al ricamo io stessa nutro qualche dubbio, in ogni caso, eccolo, il ricamo: sarà
un pessimo lavoro da principiante, che si punge con l’ago e aggroviglia i fili,
ed è capace solo di maldestri punti nervosi che strappano la tela, o il disegno
spiccherà netto e armonioso sulla tela? Ai temerari che vorranno leggere, l’ardua sentenza.
Domenica sera, intorno all’orario
previsto, mi son messa davvero a pensare al concerto. Ho visto la Piazza che si
riempiva, il Cantante che si faceva un po’ aspettare, il cielo che si faceva
via via più scuro. Aria di festa tutt’intorno. Solo che a un certo punto quello
che vedevo non era più Penne, non c’erano più la Porta e la piazza della piccola
città di provincia abruzzese. No, era il mare della mia città visto da un punto
panoramico, era il Bastione di Santa Croce il giorno di martedì grasso, con gli
echi nella notte del carnevale che muore, mentre sotto si consuma il rogo di Cancioffali. Di Mimmo non c’era traccia,
niente da fare; più ci pensavo, più lui si faceva inafferrabile. Brutta
sensazione davvero, come non essere invitata alla festa cui tenevi tanto, da
ragazzina, o, peggio, essere invitata, ma quello che ti piaceva non ti guardava
nemmeno, anzi baciava platealmente, durante il ballo nel salone con i mobili
appoggiati alle pareti, l’oca del gruppo, oca quanto vuoi però piuttosto
sveglia e concreta. Cose dure da buttar giù, e siccome farsi male va bene fino
a un certo punto, te ne andavi, dalla festa, e ti rifugiavi nei tuoi diari o
nei tuoi libri o semplicemente nei tuoi pensieri. Sarà stata una reazione
inconscia, forse perché la sensazione dell’esclusione prevaleva, e non era
piacevole, ma proprio mi venivano in mente tutte le immagini possibili,
domenica 8 luglio 2012, intorno alle 21,30-22, ma nessun palco, nessun
cantante, nessuna canzone, nessuna band. Niente.
Ho preso un libro, mi son messa a
leggere. Quanto m’è garbato il libro del Nesi, Storia della mia gente. Toh, guarda, questa è un’altra coincidenza,
lo scrittore nelle pagine che mi trovo davanti, parla del suo rapporto con la
musica, dice di non capirne niente, nel senso di non avere nessuna educazione
musicale, di avere difficoltà a distinguere gli strumenti, quando ascolta una
canzone o un brano musicale, però ne è attratto, e dalla musica che ascolta si
aspetta qualcosa, e racconta questa sua attrazione e queste sue aspettative con
parole che mi hanno lasciato qualcosa dentro, tanto che ne scrivo qui, non
preoccupandomi minimamente di andare fuori tema. Vorrei trascrivere l’intero
brano, perché citandone solo un frammento mi sembrerebbe di violarlo, ma è
troppo lungo e non è questa la sede. Io, occupandomi di Mimmo, inevitabilmente mi sono accostata a concetti che prima erano
misteriosi, e lo sono ancora, ma un po’
meno. No, non ho accresciuto la mia educazione musicale in senso stretto: lì,
purtroppo sono e sarò molto carente; parlo di piccole cose, dell’essere venuta
a conoscenza dell’esistenza di certi artisti, dell’acquisizione di una certa
terminologia… Non sapevo cosa fosse, ad esempio, una title track, prima, ne’ una ghost
track (questa mi ha molto colpito la fantasia) e non sapevo che esistesse uno strumento chiamato glockenspiel, forse non conoscevo neppure il significato dell'espressione concept
album, anche se avrei potuto arrivarci, ne’esattamente di cosa si occupasse un
produttore musicale, e che cosa si intendesse per arrangiamento. Tornando per
un momento al libro del Nesi - giusto
per chiarire - non parla però di musica: parla di Prato, dove
ovunque si udiva il rumore, anzi la musica delle tessiture; parla di pezzi di vita e di storia
che muoiono fuori, ma rimangono dentro chi li ha vissuti e risalgono poi in
rigurgiti di nostalgia, parla delle conseguenze della globalizzazione, del
mondo tutto uguale che gira troppo in fretta, di chi lavora nell’ombra e di chi
esibisce sé stesso in una vanitosa vetrina perennemente illuminata, e si prende
tutti i meriti dell’altro.
L’ho davvero amato e consumato in
fretta, questo libro, però domenica sera a un certo punto l’ho abbandonato e mi
son messa a dormire. Una fuga nel sonno, piuttosto breve, perché a un certo
punto, è accaduta una cosa inattesa: sono stata svegliata da una voce nota, che
cantava a squarciagola Tango dietro
l’angolo, infervorandosi soprattutto sul verso Questa notte è dedicata à moi. L’ho anche visto, l'uomo che cantava: teneva gli occhi
chiusi e batteva i piedi al ritmo della sua musica. Ho usato lo zoom per
osservare meglio: era tutto rosso e goccioline di sudore gli imperlavano la fronte, rotolando fino al mento e al collo. Era visibilmente contento. Ho guardato l’ora:
mezzanotte meno dieci. Tango dietro
l’angolo è una di quelle che canta alla fine, in genere, una di quelle dove
si lascia più andare, nel momento in cui il concerto raggiunge il suo culmine e
il pubblico risponde con partecipazione più calda e gioiosa. Ho avuto la percezione esatta che il concerto
fosse arrivato alla fine, o finito da poco, e che il cantante fosse, oltre che
terribilmente felice, terribilmente
frastornato, così carico da fare tutta
una tirata fino all’alba del giorno dopo, senza risentire della stanchezza.
Nel mio lettore CD guarda caso
c’era proprio Tango dietro l’angolo,
e mezzo addormentata l’ho fatto andare, a volume basso. Poi ho visto dei fuochi
d’artificio, in lontananza, gente contenta che si abbracciava, voci allegre e
cappelli che prendevano il volo, una bella tavola imbandita, ma non sapevo più
dove tutto ciò avvenisse, perché c’era tutto, davanti a me, Il Bastione di
Santa Croce e Il Duomo di Penne, Il Gran Sasso e la Sella del diavolo, le
cantine della Borgogna e anche le mille
luci di New York… Tutto insieme, una gran babele, gente che andava e veniva
e ciascuno parlava la sua lingua ma si capivano tutti. C’era perfino Margarita
d’Austria che tesseva, in fiammingo, le lodi del musico, e lui le rispondeva in
pennese antico - lei quello di adesso lo capisce poco - che si sentiva onorato
dei suoi elogi. Lui si dichiara spesso molto onorato, naturalmente se ci sono
le condizioni per dichiarsi tale. Onorato è un termine classico del suo
lessico.
Il pensieri fluivano veloci, si
trasformavano in immagini, tutto appariva chiaro e netto, quasi tangibile, come
spesso accade in quella fase di rilassamento che precede di poco il sonno, che
presto mi ha trascinato nei suoi gorghi. La mattina dopo, quando ho aperto gli
occhi, nel vedere la lucina verde, il led del mio lettore lasciato acceso, piano piano ho ricordato. Mi sono sorpresa
dello stato d’animo malmostoso dell’inizio della sera, ormai tutta dentro a una
nuova, strana sensazione: ero stata anch’io alla festa, però nessuno si
era accorto della mia presenza. Non è
male, vedere e non essere visti, solo che mi è rimasto il rimpianto di non
essere stata presentata alla figlia dell’imperatore.
Mimmo se ci potessi mettere una
buona parola tu, che frequenti l'ambiente…, mi piacerebbe propormi come dama di compagnia di Margarita.
Se accettasse, mi sentirei molto onorata.
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