Mi sarà rimasta ancora qualcosa da scoprire, su M.L.? Io penso di si, che ci sia molto altro, oltre le notizie in mio possesso che ho prontamente trasferito su questo spazio. Sono sempre stata molto felice quando, e ormai mi è già accaduto parecchie volte, avendo maturato la convinzione di essere arrivata a raschiare il fondo del barile, in maniera del tutto inaspettata, o casuale, nuovi spunti si sono offerti alla mia inesauribile curiosità. Nel caso specifico di oggi, si tratta di un libro, Roma, suoni dai sette colli : guida alla citta e alle sue canzoni / Alessia Pistolini Civitella in Val di Chiana, Zona, 2006, che, confesso, ho acquistato perché sapevo che, dentro, ci avrei trovato la viva voce di Mimmo Locasciulli, la sua testimonianza. L’autrice, alla quale, forse senza farne il nome, avevo più volte fatto riferimento, ha in più occasioni intervistato e recensito Mimmo, nel corso della sua attività di giornalista musicale. In questo lavoro, che è una vera e propria guida di Roma, strutturata in capitoli dedicati ai singoli rioni, e quartieri, (c’è differenza) proponendo itinerari e raccontando monumenti, o dedicando piacevoli “interludi” ad aspetti della città, attraverso le canzoni di diverse generazioni e di cantanti e cantautori, che l’hanno, ciascuno alla sua maniera, celebrata, ampio spazio è lasciato alle testimonianze di alcuni di essi. Ciascuno secondo la sua esperienza e sensibilità, raccontano il rapporto con la città.
Mimmo Locasciulli non ha dedicato canzoni a Roma, la città è menzionata esplicitamente in una sola canzone, Alice è felice, ma, vivendo una buona fetta della sua vita nella città, ed essendo Egli costantemente ispirato dai vari input non è escluso che, indirettamente, la sua produzione ne sia stata influenzata. A ben pensarci, la città è citata a anche in Povero me, ma qui la responsabilità è condivisa con il coautore. Cammino come… un deragliato… (deragliato è insuperabile)… per le strade di Roma. (Per le strade di Roma è anche il titolo di una canzone di Francesco, che si trova in Calypsos, uno dei miei album preferiti, tra i recenti.) Forse in una grande città il senso di deragliamento, di scoramento è ancora più forte.
L’autrice del libro riporta alcuni versi molto noti di Intorno a trent’anni, …Con una città che sa menare le mani e con un pugno ti stende per terra. Sarà Roma la città, o sarà un sublimato di città? Il rapporto che M. ha con la capitale, lo ha in più occasioni molto ben descritto egli stesso, in particolare in quella pagina in cui fa riferimento alla sua anima abruzzese. Sintetizzando, Roma ha avuto e ha un ruolo importante nella sua vita, lo ha plasmato, ha tracciato le sue rotte, ma non lo ha inglobato, fagocitato, posseduto; la sua identità abruzzese è molto netta; nella città vive e opera (in senso stretto e in senso lato) ma per quanto possa essere stimolante, appare evidente che è a lui più confacente una vita in una dimensione più a misura d’uomo, più a contatto con la natura, che gli permette di ritemprarsi e di ritrovare le energie che la grande città - con il suo traffico, i suoi impegni incalzanti, i continui squilli del telefono, (spegnilo, ogni tanto, almeno uno) i contatti, i tempi stretti - assorbe.
Durante i primi anni a Roma, dichiara Mimmo Locasciulli, la città per lui era l’Università, la casa dove abitava, e la casa di un cugino proprietario di un atelier con clientela selezionata, (sarà quello molto noto che ha dato al marchio il nome delle isolette dell’Adriatico?) dove trascorreva molte serate. E poi naturalmente il Folkstudio, che quando lo frequentava lui, era nella sede di Via Sacchi. (Inciso: il Folkstudio è una colonna portante del libro, se ne parla moltissimo. Anche in riferimento alle diverse sedi che ha avuto. Per Lui, il Folkstudio è quello di Via Sacchi. Nella sede precedente di Via Garibaldi, non c’è mai stato. In quella successiva di via Frangipane, dove il locale si era trasferito intorno al ’92/’93, non ci ha più messo piede, perché evidentemente quel tempo a lui caro, quelle atmosfere, la pulsione eroica nella musica, ormai forse non c’erano più.) Insomma, percorreva sempre le solite strade note, da buon abitudinario come dichiara di essere.
Pare che a distanza di tanti anni continui a non avere una completa padronanza della città, a non conoscere i nomi di tante strade, e a non sapere come arrivarci, per cui si avvale delle consulenze dei figli, che a Roma si spostano con molta disinvoltura. Secondo me è un vezzo, un altro modo per mantenere un affettuoso contatto con loro, che magari altrettanto affettuosamente lo prendono in giro. Insomma io mi immagino questi bei quadretti familiari, Mimmo già pronto di tutto punto, in giacca cravatta e camicia chiara e borsa portadocumenti, perché ha un impegno di lavoro, Matteo appena alzato in pigiama e molto spettinato, le marmellate di loro produzione sulla bella tovaglia del mattino, l’uovo à la coque appena deposto da Bianchina, il profumo del caffè… Papà, allora devi passare per… poi svolta a destra, poi ti trovi davanti alla rotonda… ma quando imparerai a usare il navigatore satellitare? Mai, perché le indicazioni di un figlio non sono paragonabili a quelle di un aggeggio elettronico. (Mie fantasie, in cui per i condizionamenti subiti sono portata a immaginarmi certe scenette. Magari di mattina nella casa storica di Mimmo, quella della via del romanzo, tra Esquilino e Monti, Matteo non c’è, in pigiama: è grande, starà da tempo per conto suo.) E poi Roma è dispersiva anche per i Romani veri - dice sempre M. - e si finisce per muoversi con destrezza solo nei luoghi che abitualmente si vivono e si frequentano.
Ormai nel suo quartiere, come accade un po’ dovunque, nelle città grandi e ahimè, anche in quelle meno grandi, scompaiono gli artigiani, i calzolai, i sarti, le piccole mercerie; si vedono solo i lampioncini rossi dei negozi cinesi, i ristoranti multietnici, una dimensione globale che al Nostro non dispiace, ma un mondo cui tutti eravamo almeno un po’ affezionati se n’è andato e se ne sta andando.
Sono riportati nel libro alcuni aneddoti che Mimmo ama ricordare spesso, quando se ne presenta l’occasione. Uno di questi è la nascita di Piccola luce, avvenuta proprio a Roma, di cui ho parlato tante volte, ma siccome, forse, in passato qualche particolare mi può essere sfuggito, ora faccio ammenda e riporto integralmente le parole di Mimmo. Mi tocca per contratto.
Per esempio Piccola luce è stata scritta nel ritorno dall’Acea, che sta lì a Piazzale Ostiense, sul tram numero tredici che mi riportava a Via M., perché ero stata a pagare le bollette della luce, e la sera prima o due giorni prima al Folkstudio c’era stato un concerto di un duo – Ettore e Carolina De Carolis, che cantavano le canzoni della Valle del Pescara, folklore abruzzese – e avevano inciso un disco di canzoni abruzzesi intitolato Stelluccia del cielo non ti scurire. Quindi, tra l’Acea dove andavo a pagare la luce, e Stelluccia del cielo non ti scurire, sul tram numero tredici è nata in cinque minuti una canzone.
Un altro episodio che M. racconta sempre è quello dell’unico spettatore presente al suo primo concerto serale al Folkstudio. ll gioco di sguardi, la comunicazione non verbale tra i due, e tutto il resto, li conosciamo. La cosa però ha avuto un seguito simpatico. Un bel po’ di anni fa, a una trasmissione radiofonica (quante me ne sarò perse negli anni del mio parziale oblio, ma come mi sono applicata per recuperare…) ricordò, forse per la prima volta, la storia degli occhi che dicevano Ehi amico guarda che ho pagato il biglietto e tu canti anche se sono solo, e degli altri occhi, che di rimando, - Ehi amico ti prego non te ne andare - e dopo una settimana gli arrivò una cartolina dell’unico spettatore, Caro Mimmo ero io, sai faccio il medico a Ostia. Terreno comune… Magari era un suo collega alla Sapienza e lui non lo sapeva.
Tornando alle considerazioni sulla città, Mimmo pone l’accento su un fenomeno che si verifica spesso, purtroppo, non solo a Roma: la mancanza di partecipazione e solidarietà, l’incapacità di intervenire a sostegno di qualcuno in difficoltà, o peggio di qualcuno brutalmente aggredito e lasciato a terra. Indifferenza o paura? A me da poco è capitato di sentirmi un verme perché su un autobus, un signore molto anziano ha rimproverato un ragazzotto che teneva i piedi sul sedile di fronte. Apriti cielo, il bullo ha avuto una reazione aggressiva che rischiava di non essere solo verbale. Io fremevo, ma non sono intervenuta, avendo rischiato in altri casi simili, col mio intervento, di essere malmenata, ed essendo stata più volte insultata. Mi sono sentita un verme ugualmente, ma quello era un tipaccio: ho avuto paura e, magari vigliaccamente, non sono intervenuta.
Ancora Mimmo racconta di essere estasiato, (anzi folgorato, dice, per essere precisi; mi sto rendendo conto di quanto inflazionata sia la parola che ho scelto per il titolo, ma non ci posso fare niente, non ce n’è un’altra che renda l’idea così bene, banale e inflazionata quanto si voglia) e al contempo irritato da ciò che vede ogni volta che attraversa la città.
Pone l’accento anche sulla mancanza di accoglienza nei confronti dell’altro, del diverso, dello “straniero”. Trent’anni fa non l’avrei detto, ma forse trent’anni fa non c’era il problema.
Altre considerazioni su come cambia la città, nel corso degli anni, su come cresce e si estende a dismisura. Il ricordo della visita alle borgate, sulla scorta di suggestioni pasoliniane, la scoperta di una realtà totalmente sconosciuta. Lo stupore nel vedere un uomo che dormiva per strada, al suo arrivo a Roma, poi, durante il primo viaggio a New York, un barbone a ogni passo, cosa che evidentemente a Roma non accadeva ancora, mentre oggi…
Infine un ultimo accenno a un aspetto spinoso, un riferimento “alle maleducazioni” della gente, dalle quali, se c’è una popolarità, devi pure difenderti, mettere dei paletti, in primis in ospedale, e poi al ristorante, al semaforo (vecchi discorsi, affrontati in passato). Il tipo che mentre sei in ospedale, nel tuo ruolo di medico, in una circostanza particolarmente seria, ti apostrofa con un 'A Mimmo, e ti dà una pacca sulla spalla. In ospedale, al ristorante, al semaforo, dovunque, è una questione di educazione e di opportunità, di rispetto dei luoghi, dei ruoli, delle persone con cui sei, e di buon gusto. A un saluto educato, a un sorriso, che vuol essere un omaggio, e che non chiede altro, si può rispondere tranquillamente ovunque, anche col camice. (Lavato e stirato: da poco sono stata in ospedale e mi ha visitato un medico con un camice che non vedeva acqua saponata e ferro da almeno un lustro; non sono dettagli, anche qui c'è una questione di rispetto.) Su questo penso concordi anche Mimmo. Cosa c’entra con Roma tutto questo? Evidentemente in massima parte gli accadono a Roma, questi spiacevoli inconvenienti. Da lì eravamo partiti.
Basta, se qualcuno è interessato a sapere cosa racconta Mimmo, tutto tutto tutto, e cosa raccontano l’autrice e gli altri intervistati, lo compri, il libro; magari è fortunato come me, e nella sua città c’è un deposito della casa editrice Zona, che dedica molta attenzione, tra l’altro, alle tematiche musicali.
Siccome stasera sono molto minacciosa, prometto una nuova prossima incursione in un altro libro pubblicato dalla stessa casa editrice, che ho comprato indovinate perché? C’entrerà il nostro amico giustamente infastidito dalle “maleducazioni”?
Ai post l’ardua sentenza…
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