Mimmo & Greg

Mimmo & Greg
Grazie Mariangela, grazie Mimmo!

giovedì 23 dicembre 2010

DICEMBRE


Settimana precedente il Natale: nel mio distratto e non indispensabile aggiornamento settimanale sul piccolo schermo, quello del sabato pomeriggio, salto di canale in canale, ma non c’è verso di essere risparmiata: dovunque si susseguono servizi realizzati nelle dimore di personaggi più o meno famosi, in particolare leggiadre fanciulle che hanno voluto moltiplicarsi, e ci mostrano come le hanno addobbate, queste dimore, spesso con l’aiuto dei loro pargoli in fasce, quali decorazioni hanno utilizzato per l’albero e dove e con chi trascorreranno quella che, nata come festa religiosa, è diventata, quasi per tutti, festa della famiglia, e ancor più spesso, festa dell’eccesso, consumistico e alimentare. Quasi tutti e tutte tessono l’elogio della famiglia, porto sicuro dopo tanto navigare e raccontano di come stendano bene la sfoglia a mano e allestiscano personalmente la tavola di Natale. Se siamo fortunati riusciamo pure ad avere la ricetta natalizia di famiglia. Al di là di ogni frivolezza televisiva, le ricette di famiglia sono davvero un patrimonio da salvaguardare: spesso tramandate di generazione in generazione costituiscono il collante affettivo, perché il cibo è affetto e tempo e cura e attenzione, e talvolta, l’unico retaggio di famiglie ormai disgregate, o l’unico legame con regioni di provenienza, dove da tempo non si vive più.

Il nostro artista avrà, anche lui, almeno in qualche occasione, ricevuto la sua buona razione di telefonate da parte del, anzi della (certe questioni sono appannaggio femminile) giornalista di turno, e sarà stato invitato a raccontare come trascorre le feste di fine anno. Mi auguro che a nessuna sia mai venuto in mente di chiedergli se si sia mai vestito da Babbo Natale. Nel qual caso, peggio per lei.

Ho un ricordo di una sua testimonianza sulla cucina della tradizione nel suo paese, Penne, proprio nel periodo delle festività natalizie, e avrei voluto riportarla integralmente, ma come già in altri casi mi è accaduto, pur ri-digitando tutte le possibili chiavi di ricerca, non sono più riuscita a recuperare la preziosa notizia. Parlava delle signore di Penne, abili cuoche, intente, nell’intimità e nel calore delle loro cucine, ma anche nelle cucine delle trattorie, a preparare gustosi manicaretti; per le strade del paese innevato, l’odor del freddo si mischiava a quello dei cibi in cottura. Sulla base delle notizie raccolte, e della conoscenza del personaggio raccontato da sé medesimo e dagli altri secondo i canoni consueti, il suo Natale me lo potrei immaginare, però preferisco non dire una sola parola, primo perché talvolta ciò che è verosimile può scontrarsi con una realtà del tutto diversa, secondo perché potrei lasciarmi prendere la mano, tirar fuori tovaglie dai cassetti, piatti dal mobile d’emporio, vini dalla cantina, cibi dalla dispensa, calarmi insomma nel ruolo di fantesca di casa L., ruolo che, è bene tenerlo sempre a mente, non potrà mai appartenermi. (Nota seria dopo una boutade: molte ragazze e donne sarde di umile condizione, in un passato non molto lontano raggiungevano la capitale e si mettevano a servizio presso le famiglie borghesi, e spesso ci rimanevano una vita intera, laboriose e discrete, fino alla pensione e qualche volta anche oltre, senza mai aver avuto una vita tutta loro.)

Tra i ricordi d’infanzia del nostro artista legati al Natale, forse un posto importante occuperanno i canti alla messa di mezzanotte, le “mitiche” figure familiari, i sapori costantemente riproposti e gustati, le famose notti innevate…

In un buon numero di sue canzoni sono molto ben rappresentate, tanto che a chi ascolta pare di esserci dentro, atmosfere invernali, neve piogge brume freddo gelo e per converso fiamme e luci, camini accesi e abbracci che riscaldano le membra, braccia gelate in particolare, e il cuore. Il Natale è espressamente citato, mi pare, solo in tre canzoni, che in ordine meramente cronologico sono
Dicembre

Qualcuno dice che sei già scappata via
Qualcuno dice che fai vita giù in città
E se ti può star bene fatti viva per Natale
Ma non ti voltare indietro
Se capisci che ti va male.

che potrei dire, tra le tre, la mia preferita, ma mi sembrerebbe quasi ingiusto, prima di tutto perché mi sentirei come una mamma che dichiari di preferire un figlio ad un altro, secondo perché le altre due,
Il suono delle campane

Uomini senza lingua uomini senza pietà
Uomini senza un dolore uomini senza umanità
Uomini in fila indiana nella notte di Natale
Aspettavano fumando il suono delle campane

e
Lucy

Prega di giorno prega di notte
Prega che il suo cuore non pianga mai le botte
Botte che arrivano come le caramelle
Che i bambini si sognano a Natale

sono altrettanto belle, ma sono anche un’altra cosa.

Molte canzoni di Locasciulli presentano caratteri comuni, nelle situazioni evocate, nelle atmosfere, nei temi proposti. Mi piacerebbe tentarne un’analisi comparata, prima o poi, e ad esempio, partendo da Dicembre, mi vengono in mente Piove e non piove e Un po’ di tempo ancora. Quest’ultima, anche a una semplice lettura, senza ascolto, si rivela un classico di perfezione locasciulliana. Non c’è una parola fuori posto, una sbavatura, una piccola nota stridente. Potrebbe benissimo reggersi senza musica, ma siccome è una canzone, la musica c’è, ed è un vestito confezionato su misura da un sarto provetto, o sono state le parole a entrare perfettamente dentro quella musica, non lo so.

Prima di entrare in possesso di notizie sul metodo, anzi sui metodi compositivi di Mimmo Locasciulli, e mi riferisco al mio passato di attenta ascoltatrice delle sue canzoni, che mi portavano a provare sensazioni ed emozioni, e anche a formulare riflessioni, senza mai però, come usa dirmi la mia amica M., sentire l’esigenza di procedere all’esame autoptico, o per essere meno macabri, alla TAC dell’artista - nel senso di andare un po’ più in profondità nel tentativo di scoprirne il nocciolo, come ho fatto in questa mia fase più recente - ero fermamente convinta che la maggior parte delle sue canzoni nascessero da un più o meno “tormentato” calarsi nel profondo di sé stesso, da un processo di autoanalisi, cosa che invece, almeno l’artista così ci racconta, in questa forma così “dolorosamente” introspettiva è avvenuta solo con l’ultimo lavoro, Idra. Non importa: a me, e non solo a me, era sembrato che così fosse stato spesso anche in passato, che ci fosse anche un guardarsi dentro, oltre che un guardarsi intorno, al fine di immagazzinare e custodire input ispirativi dentro “salvadanai” che a un certo punto si rompono, quando giunge inaspettato il momento di comporre.
Non sono neppure del tutto d’accordo con lui quando dice che attualmente è convinto di scrivere canzoni più belle di, cito testualmente, dieci o quindici anni fa. Vero è che è meglio non “estrapolare” da un “contesto” (metto tra virgolette perché mi ritrovo ad usare parole che non amo, e io cerco di fare attenzione all’uso delle parole) e non prendere per verità assolute, inconfutabili, dichiarazioni che hanno si un fondo di verità, ma sono anche legate al momento contingente.

In ogni caso, qualsiasi sia la molla o il metodo che ha portato alla loro composizione, quelle di Mimmo Locasciulli sono canzoni slegate dalle mode, che resistono al tempo, in una parola dei classici. Canzoni che più le ascolti più ti viene voglia di ascoltarle, e certo non sono solo canzonette, e dentro, attento osservatore e cronista del suo tempo, o impegnato in un’ardua discesa negli scantinati di sé stesso, si scorge sempre l’anima di un uomo. Un uomo, e, già questo, come diceva quel suo amico che tra tutti ha saputo, con poche pennellate, meglio delinearlo, non è poco.


Poiché ho preso come spunto il Natale, e in queste circostanze di festa la tavola ha un ruolo fondamentale, avrei voluto fare la spiritosa e proporre un menu di un signore francese molto noto, François Rabelais, collega cinquecentesco di Mimmo Locasciulli, (no, Mimmo non è mai stato frate, ma, Rabelais, lasciato il saio, divenne medico… il mondo era ed è pieno di medici con inclinazioni artistiche) e servire in questa antivigilia una delle colazioni di Pantagruel. Ho cambiato idea perché il francese del cinquecento è un po’ ostico, e poi perché Pantagruel, non si limita solo a mangiare, ma fa anche delle cose che qui dentro non mi sento di proporre, per quanto io non ambisca a diventare la nouvelle Donna Letizia. Nessun menu, dunque, ma alcuni aforismi di un un compito signore francese vissuto tra il 1755 e il 1826, che si chiamava Jean Anthelme Brillat–Savarin e di mestiere faceva il magistrato, ma si era dedicato con passione, prendendosela comoda perché voleva che il piacere di scrivere di un argomento che lo appassionava tanto durasse il più possibile, (come Folgorata, che s’inventa qualsiasi cosa pur di continuare a scrivere) alla stesura di un’opera assai nota intitolata Physiologie du gout ou Méditations de gastronomie trascendante Un classico, un piccolo gioiello, che regala al lettore pagine piacevoli, un’opera seria, ma lieve, connotata da una gradevole e arguta ironia. Ecco dunque alcuni dei suoi aforismi, (in tutto sono venti, vi grazio e ve ne propongo solo quattro) che precedono l’opera vera e propria.

-Les animaux se repaissent; l’homme mange; l’homme d’esprit seul sait manger.

-La destinée des nations dépend de la manière dont elles se nourissent. (Evidentemente ci siamo nutriti molto male, in questi ultimi tre lustri.)
-Le plaisir de la table est de tous les âges, de toutes les conditions, de tous les pays e de tous les jours ; il peut s’associer à tous les autres plaisirs, et reste le dernier pour nous consoler de leur perte.

-La decouverte d’un mets nouveau fait plus pour le bonheur du genre humain que la decouverte d’un étoile.

Ne consiglio a tutti la lettura. Un capitoletto, anzi una méditation di tanto in tanto. Potrebbe diventare un libretto da tavolino da notte. A Mimmo, gourmand sans retour, che questo libro certamente conosce meglio e prima di me, ma non so effettivamente da quanto non lo apra, mi permetto di suggerire la lettura del paragrafetto 64 della Méditation XII.

Niente traduzione per gli aforismi: uno che ama Mimmo Locasciulli, ça va sans dire, il francese, almeno quel tantino per leggere e comprendere un testo, deve conoscerlo. (A breve saranno aperte le iscrizioni al corso “Come diventare un perfetto fan di Mimmo Locasciulli”, a numero chiuso; si accede dopo aver superato una severa selezione. Costituisce credito la conoscenza della biografia autorizzata, ma anche, in misura minore, della “agiografia” romanzata di Folgorata.)

Buon pranzo di Natale a tutti, e mi raccomando: gourmandise, non gloutonnerie o voracité.

1 commento:

  1. Buon anno Folgorata! A leggere il tuo blog si impara sempre qualcosa. Anche a ridere.
    Nanà

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