Mimmo & Greg

Mimmo & Greg
Grazie Mariangela, grazie Mimmo!

giovedì 27 maggio 2010

ASCOLTANDO IL SILENZIO DEL MARE




UNA PICCOLA SERIE DI COINCIDENZE,
QUALCHE SEGNO PRESUNTO,
UN PICCOLO SOGNO

In Biblioteca, davanti allo scaffale dove sono allineati i vecchi gloriosi Coralli Einaudi: ne sono sempre attratta, ora come ventiquattro anni fa, quando in questo posto ci entrai per la prima volta e tutto era una scoperta e un girare ubriaco per i magazzini, che mi apparivano come un labirinto magico. Tutto mi sembrava smisurato, mai avevo visto tanti libri messi insieme. Ora tutto è ridimensionato e mi sembra quasi angusto. I libri crescono sempre e lo spazio rimane uguale. Girare per i magazzini tuttavia è sempre una scoperta e un’avventura, e ancora oggi mi ritrovo a scegliere libri curiosando davanti a uno scaffale, e a scoprire autori nello stesso identico modo. Ai Coralli sono molto affezionata, ci sono tanti dei miei autori preferiti, c’è Calvino e Natalia Ginzburg, c’è Sartre e Hemingway, c’è Pavese e molti altri ancora. Credevo almeno di conoscerli tutti, se non proprio di averli letti tutti. Mentre ero lì, eccomi d’un tratto attratta da un titolo, Il silenzio del mare. Inevitabilmente il pensiero va alla canzone di Mimmo Locasciulli, che s’intitola allo stesso modo; mi vengono in mente alcuni versi, quelli finali, mi pare:




Portami via c’è sempre troppa nostalgia

Dentro uno sguardo che si perde in una scia

Dentro un segreto che ciascuno può tenere

Ma nessuno può scoprire

E nessuno può tradire mai.


Chissà se Mimmo lo conosce, questo libro - mi domando - chissà se c’è un nesso tra libro e canzone, e intanto me lo porto via, il libretto dalla legatura rossa, e decido di prenderlo in prestito. L’autore si chiama Vercors, mi sa di pseudonimo: forse è grave, ma io non l’ho mai sentito nominare, anche se il nome mi è vagamente familiare, dev’essere legato a qualcosa sepolta nella mia mente che ora non ricordo. Il silenzio del mare è un racconto non troppo lungo e lo leggo, quasi, durante il tragitto lavoro-casa, in pullman, come mi accade spesso. Un racconto ambientato in Francia durante l’occupazione tedesca: una casa requisita; un giovane ufficiale tedesco che occupa una parte di quella casa, dove vivono un uomo anziano e la sua, si intuisce bella, nipote; un ambiente domestico apparentemente calmo e tranquillo, con tutti i suoi rituali consolidati, ma con la tragedia della guerra e dell’invasione tangibile. L’ufficiale che cerca una comunicazione che mai avrà luogo: egli parla, racconta sé stesso nelle pieghe più intime, mentre i padroni di casa restano muti, e continuano le loro occupazioni e le loro abitudini come se nulla fosse successo, e in casa fossero soli.


Non mi sembra ci sia relazione con la canzone, ma voglio vederci chiaro. Mi pareva di aver cercato fin troppo a lungo notizie riguardanti M. e la lettura, e alla fine annoiata e anche un po’ frustrata dalle scarne e ripetitive notizie trovate, mi ero arresa. Invece ecco mi appare qualcosa che prima non avevo trovato, pur avendo provato con tutte le chiavi di ricerca possibili. Ecco che cosa mi serviva: “I consigli di lettura di Mimmo Locasciulli”. Le mie intuizioni non si sono rivelate del tutto esatte, ma la mia sfera di cristallo evidentemente presenta dei punti di opacità: Mimmo non è, o non era, perché la breve intervista è del 2005 e in cinque anni qualcosa potrebbe essere mutata, un lettore così a tutto tondo come io avevo ipotizzato: si certo, i suoi generi preferiti sono il romanzo, la saggistica (non politica, precisa) e la poesia, ma di norma non legge opere di autori viventi, eccezion fatta per la poesia. Il suo interesse verte sui grandi romanzi dell’ottocento e del novecento. Io rispetto profondamente le scelte di Mimmo, ma spero che abbia cambiato idea e riservi un po’ della sua attenzione anche a qualche scrittore attualmente ancora in circolazione su questa terra. Sono convinta di si, generalmente non vuol dire sempre. Ci saranno di sicuro delle eccezioni, anche se l’ottocento e il novecento, sono certo miniere inesauribili.


Mi vengono in mente una tale quantità di autori viventi o che sono partiti da poco, che non può non aver preso in considerazione. Mi viene in mente ad esempio Ensaio sobre a Cegueira, che in italiano diventa Cecità, di Josè Saramago, vivente. Leggere un libro così è un’avventura. Mi viene in mente anche Philip Roth, che io leggo volentieri, non tanto perché credo possa essere nelle corde di Mimmo, ma quanto per una suggestione che deriva dalla città natale di Roth, Newark, di cui tanto parla nei suoi romanzi, che è anche la città dove, dall’Abruzzo, approdò il “famoso” nonno cui Mimmo fa tanto spesso riferimento.


Tornando a Il silenzio del mare, nella breve intervista letteraria, (di cui inserisco il link, se qualcuno volesse leggerla: http://www.wuz.it/archivio/cafeletterario.it/388/cafecons.htm, pur nella sua brevità aggiunge una tessera al nostro mosaico) c’è, eccome un riferimento al libro di Vercors, pseudonimo di Jean Bruller, scrittore e disegnatore francese nato nel 1902 e morto nel 1991, che Mimmo (poteva essere diversamente?) conosceva. No, non c’è attinenza tra le due opere, nel senso che parlano di cose totalmente estranee tra di loro, però in entrambe pur in maniera differente, si respira un aria sentimentale, malinconica. Il racconto di Vercors, che ispira il suo pseudonimo al Massiccio del Vercors, nelle Alpi francesi, preso come base dalla Resistenza francese, di cui Bruller fu attivista, ne divenne uno dei simboli, e quell’ostinato silenzio degli abitanti francesi della casa requisita nei confronti dell’occupante tedesco, sempre educatissimo e gentile, ne è la prima forma.
Una con il mio temperamento, davanti a una serie di segni come quelli descritti finora, (il fatto di aver visto mille volte quei libri e di non aver mai notato quello con quel determinato titolo, il fatto che effettivamente M. lo conoscesse e ne avesse ripreso il titolo per una sua canzone, il fatto di aver trovato poi notizie ulteriori sui suoi gusti letterari…) cioè attribuendo a fatti come quelli narrati finora il valore di segni, potrebbe facilmente lasciarsi trasportare, perché il sotterraneo mondo dei segni è davvero affascinante… tuttavia, non sempre, ma ogni tanto, mi ridimensiono e cerco di fornire una spiegazione razionale a questi segni del destino. È naturale, essendo ormai diventato il mio artista un involontario (questo lo sottolineo sempre, perché penso di doverglielo: lui magari avrebbe abitato volentieri da un’altra parte, o da nessuna) abitante di una porzione non minuscola della mia mente e anche del mio cuore, che veda le cose anche in funzione di questo “inquilino”: certo, Il silenzio del mare, la canzone, la conosco da quando è stata pubblicata, perché (Adesso glielo dico) l’avevo comprato subito subito, nel 1989, ma c’è da dire che forse le stanze che occupava prima nella mia testa e nel mio cuore erano un po’ più defilate, mentre quelle che gli faccio frequentare adesso sono più immediatamente accessibili e trafficate. Del tutto normale, quindi, che il libretto con quel titolo non mi “chiamasse”, come mi ha “chiamato” ora. A questo io credo molto, che i libri abbiano un’anima e un gran desiderio di comunicarci, o non comunicarci, delle cose. Lo fanno secondo il loro capriccio, per cui non è detto che quel tal libro, di cui tutti parlano, considerato un capolavoro, abbia voglia di farsi scoprire da noi: troppo impegnato su altri fronti. Arriverà, se dovrà arrivare, l’incontro.

Come vivranno, mi domando, i biografi veri, quelli dotati di tutti i crismi e anche di “imprimatur” dell’oggetto di studio, se vivente? Intendo dire, se è capitato a me, che vivo ormai con una sorta di amico immaginario accanto da quasi un anno (a giugno scorso ho iniziato la mia personale recherche nel mondo di Mimmo, partendo da un ascolto attento, prima vorticoso, poi piano piano, di quanto avevo trascurato negli anni del parziale oblio) e ci parlo pure, talvolta, gli chiedo cosa pensi di questo e di quello, evitanto per quanto mi è possibile di farlo ad alta voce e in pubblico, e dandomi evidentemente anche la risposta, cosa capiterà a quei signori? So di persone che da tantissimi anni, decenni, si occupano di un personaggio importante, lo studiano a fondo, avendo a disposizione fonti serie e accreditate, lasciando ben poco all’intuito, anche se una buona dose di capacità empatica serve, e inevitabilmente quest’oggetto di studio diventa una parte importante della loro vita. Si entra nelle abitudini e spesso nei recessi dell’anima. “Tra gli amici di un grand’uomo – diceva Oscar Wilde – esiste, sempre, come tra gli Apostoli, un Giuda, ed è colui che ne scrive la vita” perché per fare in modo che un lavoro sia completo e obiettivo, deve per forza di cose indagare anche su aspetti non sempre positivi, non sempre edificanti, deve entrare anche nel lato oscuro, se c'è. Insomma una biografia seria non deve essere un panegirico.
Uno studioso che per un periodo lungo, ma non lunghissimo, si occupò, all’interno di uno studio più ampio sul socialismo inglese di fine ottocento e inizio novecento, di una signora inglese che all’inizio del ventesimo secolo tenne a Londra un salotto, in cui confluiva tutta l’intellighenzia socialista inglese, mi ha raccontato questo particolare tipo di empatia col suo oggetto di studio (molto serio) e di essere diventato un esperto decifratore di scritture impossibili dopo aver spulciato le lettere della signora.
Tom Antongini, che di D’Annunzio fu il segretario, si occupò di lui per circa quarant’anni, intrattenendo con il poeta un rapporto privilegiato, che gli permise infine la pubblicazione della biografia intitolata Vita segreta di Gabriele D’Annunzio, Milano, Mondadori: 1938, cui seguirono anche altre opere dedicate al Vate, negli anni a seguire. Antongini ricevette da D’Annunzio circa settecento lettere, pensate, settecento! Ogni volta che pubblicava un libro D’A. ne faceva dono al suo segretario-biografo, con una dedica meditata. Nel 1932, all’atto di consegnargli il secondo tomo de Le faville del maglio, dopo aver guardato negli occhi Antongini e averci un po’ riflettuto, scrisse: “A Tom Antongini, che per tanti anni mi fu compagno dagli occhi acuti ed attenti.”

Ecco, io ho un sogno piccolo piccolo, perché neppure nei sogni volo troppo alto, (ecco giustificata parte del titolo) che mi piace coltivare anche se tale rimarrà (molto del fascino di certi piccoli sogni sta nella loro non realizzazione, nell’attesa di ciò che forse mai accadrà): che Mimmo, nel porgermi una copia della sua prossima raccolta di poesie, o di racconti, o di qualsivoglia altra cosa abbia scritto o abbia voglia di scrivere, prenda dal taschino la sua bella penna e verghi la pagina bianca, con scrittura essenziale e senza orpelli, come lui (o meglio la parte di lui cui sembra essere più affezionato): “A Folgorata, per tanti mesi compagna invisibile dagli occhi attenti e acuti”. M.L. devotamente grato.

giovedì 20 maggio 2010

UNA PASSIONE LETTERARIA

LA SABBIA DEL TEMPO

Come scorrea la calda sabbia lieve
Per entro il cavo della mano in ozio,
il cor sentì che il giorno era più breve,
E un’ansia repentina il cor m’assalse
Per l’appressar dell’umido equinozio
Che offusca l’oro delle piagge salse.
Alla sabbia del Tempo urna la mano
Era, clessidra il cor mio palpitante,
l’ombra crescente d’ogni stelo vano
quasi ombra d’ago in tacito quadrante.

Gabriele D’Annunzio
La lirica fa parte dei Madrigali d’estate, una sezione dell’Alcyone, del 1903.


So con certezza che Mimmo Locasciulli ama molto la lettura. So che spesso ha trovato in un libro rifugio e conforto, so che spesso si è appassionato ad autori, romanzi, poesie e personaggi letterari; talvolta, come usa dire lui quando una cosa gli piace molto, è “letteralmente impazzito” e ne ha tratto ispirazione anche per suoi lavori musicali. Il riferimento evidente, e ne ho già parlato, è a Vanina Vanini di Stendhal. Se dovessi basarmi solo sulle notizie trovate sull’ormai notevole quantità di materiale che ho esaminato, potrei elencare con certezza solo alcuni libri, che risulta abbia effettivamente letto, tra saggistica, narrativa, e poesia, che come sappiamo ama molto. Purtroppo da questo punto di vista la ricerca non è stata molto fruttuosa, e me ne dolgo, perché davvero sarebbe stato interessante indagare e parlare con cognizione di causa dei suoi gusti letterari. Non intendo qui, proporre il solito gioco delle ipotesi, già sfruttato come espediente in altri post, come quello dedicato all’infanzia e alla fanciullezza, o quello dedicato alla cultura hobo, in cui mi gioco la carta delle letture tipiche di una certa generazione con certi gusti e una certa formazione.

Qui, ora, non mi azzardo dunque a citare autori e titoli di libri che secondo me potrebbero essere nella sua biblioteca reale o ideale, ma mi sento di sostenere che, a mio modesto avviso, è un lettore a tutto tondo: spazia dalla lettura dei quotidiani a quella della stampa settoriale, dagli articoli scientifici a quelli musicali, dalla saggistica alla poesia alla narrativa, dai classici agli autori più recenti e attuali, segue la letteratura italiana ma, forse ancor più quella straniera, e non mi riferisco solo a quella anglo-americana. Ci sono tantissimi autori tradotti in Italia, di altri paesi e altre culture anche minoritarie, e spesso sono l’occasione per entrare in un mondo, o anche per fare un confronto con ciò che di quel mondo si è colto durante un viaggio, e ciò che l’autore, che da quel mondo proviene, ci racconta. A Mimmo come sappiamo piace fare molte altre cose, però la lettura ha una parte importante nella sua vita. Vorrebbe poter leggere molto di più di quanto già non faccia: il problema sono queste benedette giornate di ventiquattr’ore, e non di quarantotto come sarebbe auspicabile. Insomma, è un lettore attento, con le sue preferenze, certo, ma quasi senza pregiudizi di genere: se un libro lo attrae, lo legge. Certo è un lettore non convenzionale, non di quelli che legge un autore perché è di moda, e talvolta, ne sono certa, si appassiona ad autori poco noti o controcorrente, o dimenticati dai più.

Non ho potuto contare neppure su un questionario di Proust che lo riguardi per poter svelare quali siano i suoi autori in prosa e in poesia (qualcuno lo so) preferiti. (Scherzo: domanda pessima. Io non so mai cosa rispondere, odio dover dare risposte schematiche, e non potrò dunque mai dire quale sia la mia canzone preferita tra tutte quelle di Mimmo.)

Nel piccolo post di ieri, anticipazione di quello odierno, mi sono divertita a fare mia e a dedicare a Mimmo una definizione trovata all’interno di un’opera che ho letto proprio perché, indirettamente, lo stesso Mimmo me l’ha consigliata. Si tratta del “Notturno” di Gabriele D’Annunzio, che M. ha riletto la scorsa estate. Mimmo apprezza molto il suo illustre conterraneo, il quale si può amare o meno, ma del quale non si può tacere la grande personalità, l’estrema raffinatezza, le gesta ardite, e una vita certo del tutto eccezionale. L’Immaginifico intratteneva fitte corrispondenze cariche di seduzione con molte signore, e talvolta la seduzione era fine a sé stessa, un gioco affascinante condotto da entrambe le parti con sottile e sapiente maestria, con la complicità delle parole, l’uso del voi, e di splendide grafie già di per sè capaci di conquistare.

Il Notturno che tanto appassiona Mimmo è un’opera particolare nella ricca produzione dannunziana. Scritta nel 1916 in un momento di fragilità e malattia, (il noto incidente aereo che lo portò a perdere un occhio) con estrema difficoltà proprio a causa delle condizioni fisiche, è una sorta di diario in cui l’autore si abbandona al libero fluire della coscienza. Nell’opera si mescolano ricordi d’infanzia e ricordi più recenti, visioni, incubi, che non sempre è facile discernere, perché tutto sembra svolgersi in una dimensione temporale peculiare, una compresenza dei vari tempi vissuti dallo scrittore. Ci troviamo di fronte a un D’Annunzio intimo e raccolto, che mostra i suoi sentimenti più veri, l’amore filiale e l’amore di padre, verso l’amata figlia Renata che lo assistette e cercò per prima di mettere ordine nel garbuglio delle innumerevoli strisce di carta dove, una sola frase in ciascuna striscia, durante i giorni della malattia, annotò i suoi pensieri, che qualche anno più tardi, nel 1921, furono pubblicati nella loro versione definitiva.
Il forte sentimento di appartenenza e di amore verso la sua terra e verso la madre sembrano fondersi e compenetrarsi in un tutt’uno inscindibile tanto caro anche a Mimmo. Come abbiamo già sottolineato in altre occasioni, M. si riferisce alla sua terra come “la mia mamma” ad indicarne lo strettissimo e indissolubile legame, nonostante la sua vita si svolga ormai da quasi quarant’anni a Roma. A tale proposito riporto alcune riflessioni di Mimmo, espresse con parole che mai come questa volta mi hanno affascinato: Roma non mi ha cambiato, non avrebbe mai potuto. Non mi ha vinto e non mi ha preso. Ha plasmato le mie abitudini, ha modificato i miei percorsi, ha tracciato le mie rotte, ha nutrito la mia vita, ma ogni giorno c’è qualcuno che mi bussa, mi richiama e mi sorride: è lei, è la mia anima abruzzese. È a lei che appartengo. C’è in queste parole che sono una sentita dichiarazione d’amore verso la propria terra, e una fiera affermazione della propria identità, la stessa dedizione e fedeltà di un uomo nei confronti di una donna che egli ama profondamente di un amore imperituro: nessun’altra potrà mai sostituirla, (è a lei che appartengo) nessun’altra perquanto dotata di bellezza e virtù potrà avere l’amore di quell’uomo, a nessun’altra sarebbe concesso “vincerlo” o “prenderlo”, perché è totalmente consacrato alla sua donna, e non c’è spazio per altro. Per chi volesse leggere la fonte cui ho attinto, in cui M. fa riferimento alla bella pagina dannunziana cui accennavo all'inizio del paragrafo, ecco il link http://www.lafocediscanno.com/storia-e-cultura/c-e-un-abruzzese-in-ognuno-di-noi

Tra i tanti passi che mi hanno colpito del Notturno, citerei intanto quello in cui si fa riferimento al “dottore di stelle”. D’Annunzio, nel parlare della figlia dice: “La Sirenetta ha una voce che lenisce, che sopisce. Quando parla, il mio cuore si placa, il mio polso si rallenta.”… “Avendo una bella voce, la creatura è sensibile alle voci belle”… “Poi mi racconta che una sera di plenilunio, quando era alunna al Poggio Imperiale, fu condotta con alcune sue compagne a visitare l’Osservatorio di Arcetri.” … “E là ella udì la voce più bella del mondo. Era quella del modesto assistente, che presso il telescopio parlava delle montagne e delle valli luminose, parlava degli anelli di Saturno e del rossore di Marte. Tutte le fanciulle pendevano dal suo labbro, rapite dall’incanto del plenilunio. La voce pura era come un tono dell’armonia celeste. E la corona virginea palpitava come una costellazione umanata, intorno al dottore di stelle”.
Certo, quello così magistralmente narrato da D’Annunzio è un astronomo, ma la definizione mi è sembrata perfetta per Mimmo, che dottore lo è, la voce più bella del mondo ce l’ha, e con le stelle ha un rapporto privilegiato.
Mi piace ancora riportare un ricordo d’infanzia del poeta, quando, bambino cavalcava un cavallino “sardignolo” (così lo definisce) molto amato. Cito questo passo per due motivi, oltre il fatto che il cavallo, che si chiamava Aquilino, fosse sardo: per la tenerezza del rapporto complice tra il bambino e il cavallo, e perché la sua inaspettata morte mette per la prima volta davanti al mistero e al dolore della morte il futuro poeta e i suoi fratelli. “Guardavamo per la prima volta la morte, noi che non ci avevamo mai pensato se non nella notte d’Ognissanti per aspettare che ci portasse i suoi doni” “Scorgevo i moti convulsi delle zampe, e quella balzana mi faceva più male; e il tremito del muso bianco mi faceva ancora più male. Ma non piangevo, e solo dominavo la pena di tutt’e cinque. Il garzone ruppe in singhiozzi. Ricacciai in gola i miei con non so che sdegno. Vidi che le povere zampe s’erano stecchite…E per la prima volta con dieci occhi fissi guardavamo la morte. Ma io ne serbavo per tutti l’impronta.”
Un altro breve passo, per rendere ancora omaggio alla mia "anima sarda":
"Mi ricordo dei grandi boschi d'aranci a Villacidro, nell'isola dei Sardi. Ero una bestia pieghevole. Avevo due caviglie sottili. Mi scalzavo per camminare coi miei piedi giovani sul fiore nevoso che giuncava il terreno."

Grazie, Dottore di stelle per il tuo suggerimento di lettura, seppur indiretto. Io saccheggio a piene mani ciò che mi pare valga la pena saccheggiare: comunque sia di questa avventura di scoperta e di scrittura qualcosa mi resterà, e non mi pare poco.

mercoledì 19 maggio 2010

IL DOTTORE DI STELLE


Ho trovato una nuova espressione che mi pare studiata ad hoc per Mimmo Locasciulli, Il dottore di stelle, appunto, come recita il titolo. No, non l'ho coniata io: l'ho trovata mentre, rapita, leggevo un libro che non avevo mai letto integralmente, sebbene sia un libro noto di un autore celeberrimo.

Gliel'ho rubata, quest'espressione, e senza nulla togliere a chi ha definito Mimmo, il chirurgo dell'anima, questa mi sembra infinitamente più poetica. L'autore non è un contemporaneo, ma, se lo fosse stato, lui e Mimmo si sarebbero senz'altro conosciuti, e ci sarebbe stato interesse reciproco, e stima reciproca, pur nelle tante differenze e diverse visioni delle cose. Ne sono certa.

Forse avrebbero scritto insieme i testi di alcune canzoni e Mimmo avrebbe suonato il piano per lui, che apprezzava la musica. Chi è l'autore non lo dico ora, ma il piccolo mistero sarà svelato nella prossima imminentissima puntata tutta letteraria.

mercoledì 12 maggio 2010

IL FARDELLO DELL'HOBO


AVVISO AI RARI NANTES DI QUESTE ACQUE TEMPESTOSE:
LUNGO, MOLTO LUNGO...
NIENTE VIETA DI LEGGERLO A RATE, DI LEGGERLO D'UN FIATO, O ANCORA, OPZIONE NON AUSPICABILE, DI SPAVENTARSI E USCIRE.
MEGLIO ESSERE CONSAPEVOLI DI QUEL CHE VI ASPETTA.
Mi sono fatto a piedi la Lincoln Highway, pensavo che lo sapessi.
Mi sono fatto la Sessantasei, lungo la strada,
Sotto pesanti fardelli e con l’anima oppressa,
In cerca di una donna che è difficile trovare,
E ho fatto un gran duro viaggiare, Signore
Woody Guthrie

Straniero ora, misero vado, albero sradicato,
e all’alba, vacillante, nel vuoto.
Da Worker Uprooted di Joseph Kalar, poeta falegname degli anni trenta.

La strada ferrata è il mio cuscino,
la giungla la mia casa felice.
Brothers Son Bonds: Blues del vecchio scapolo.

« Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati»
«Dove andiamo?»
«Non lo so, ma dobbiamo andare »
Jack Kerouac, On the road.

A blanket of newspaper covered his head,
As the curb was his pillow, the street was his bed.
One look at his face showed the hard road he’d come
And a fistful of coins showed the money he bummed.
Only a hobo, but one more is gone
Leavin’ nobody to sing his sad song
Leavin’ nobody to carry him home
Only a hobo, but one more is gone
Bob Dylan, Only a hobo

Ogni strada è il mio portone
E io ho tutte le mie chiavi
Dentro le tasche
Ho il fumo della ferrovia
E non so mai
Dove quando
E che sarà domani
Mimmo Locasciulli, Anna di Francia

In principio fu Woody Guthrie, (1912-1967) figura leggendaria, ma fin troppo reale, di folksinger americano dalla vita avventurosa. Bob Dylan lo ammirava tantissimo, lui e il suo stile di vita fuori dagli schemi, e un giorno, era il 1960, partì anch’egli per un viaggio avventuroso, con pochi mezzi, la sua voce, la sua chitarra e la sua armonica che gli permettevano di rimediare pochi dollari come suonatore itinerante, proprio come il suo mito. Proprio durante quel viaggio, si fece coraggio e raggiunse l’ospedale del New Jersey, dove Guthrie era ricoverato per curare una malattia neurologica, la corea di Huntington, che lo avrebbe portato alla morte nel 1967. Lì i due s’incontrarono e tra loro nacque subito un’intesa che divenne amicizia. Nel 1962 Dylan pubblicò un album intitolato Bob Dylan, all’interno del quale c’è la canzone Only a Hobo. Più che l’aspetto romantico della figura dell’hobo, pare emergere dal testo la difficoltà che fare una scelta del genere, volontaria o obbligata, comporta.

La leggenda narra che proprio nei primi anni sessanta Bob Dylan capitasse a Roma e suonasse al Folkstudio: ancora non lo conosceva nessuno, ma nel giro di pochi anni divenne celebre e la sua musica, le sue idee e il suo stile di vita influenzarono moltissimi giovani di tutto il mondo. Anche molti musicisti e cantanti italiani ebbero in Dylan il loro nume tutelare, ne furono ispirati e gli dedicarono numerosi tributi, e sembra quasi pleonastico far riferimento a Tenco, De Andrè, e Massimo Bubola, (come non citare Avventura a Durango) e De Gregori, grandissimo cultore di Dylan, solo per citarne alcuni. A noi qui interessa Mimmo Locasciulli, che si appassionò alla musica di Dylan sul finire degli anni sessanta, e non abbandonò mai questa passione. Abbiamo già ricordato su queste pagine come nei suoi soundcheck M. canti sempre una versione, secondo alcuni spericolata, di Sign on the window, e che nell’album Il futuro ha proposto una cover di Series of dreams, in collaborazione con l’amico Francesco. Non so se L. e Dylan si siano conosciuti; le cronache, almeno quelle di cui io ho preso visione non ce lo narrano. Certo hanno avuto contatti proprio per l’autorizzazione alla traduzione e pubblicazione del brano citato prima. Probabilmente Mimmo ha realizzato il desiderio di conoscere uno dei suoi “padri musicali”, uno di quelli che gli ha dato l’imprinting musicale, magari in uno dei suoi viaggi in America, forse con la complicità di un amico comune, o anche in occasione di qualche tournée europea, con tappa anche in Italia, di Dylan. Certo è che tra le tante persone presenti al concerto romano di Dylan di qualche anno fa c’era anche Mimmo, e c’era suo figlio Matteo, che la passione per Dylan, come per Waits o i Beach Boys l’ha ereditata dal padre.

Dunque ricapitolando: Woody Guthrie e Dylan che va a rendergli omaggio, Mimmo che verosimilmente incontra D., io che l’incontro del tutto virtuale con il mio “piccolo nume” (solo rispetto a chi ho citato prima: sia chiaro che per me è “gigantesco”) l’ho cercato su queste pagine: il folgorato fa sempre un tentativo, che a volte riesce a volte no, per entrare in comunicazione con il folgoratore.
Finirà che anch’io prenderò il mio fagotto pieno di disillusioni e mi nasconderò su una nave mercantile per sbarcare sulla coste tirreniche; da lì, sempre clandestina, dentro un treno merci, o dentro un carro adibito al trasporto di animali, arriverò a Roma. Mi piazzerò davanti al “suo” Ospedale, e aspetterò che passi, (l’attesa potrebbe durare giorni e giorni) e, dopo avergli consegnato senza parole un pezzetto di ossidiana e una bottiglia di Turriga (mica gli posso portare il nuragus da due euro e cinquanta della cantina sociale vicino a casa mia!) come ricordo mio e della mia terra, sparirò, confusa tra la folla variegata dei pellegrini. Novella hobo.

Questo piccolo intermezzo fantasioso mi introduce nel cuore del discorso: la cultura hobo e il suo legame con Mimmo Locasciulli.

Cosa c’è nel fardello dell’Hobo?

Sicuramente pochi soldi, molto "fumo delle ferrovie", come "nelle sue tasche", una gran sete di libertà e pochissimi effetti personali. Certo l’hobo, questa affascinante figura di uomo on the road tipico di una certa controcultura americana, fin dai tempi immediatamente successivi alla guerra civile, che continua ad avere molti seguaci a tutt’oggi, seppur in forme diverse, ha influenzato intere generazioni di giovani, anche fuori dall’America, in particolare negli anni sessanta e settanta che videro l’imporsi della cultura beat, hippy, e dei movimenti pacifisti.

Vediamo di definire meglio chi è un hobo: una figura di girovago, lavoratore stagionale senza fissa dimora, che si muove in lungo e in largo per tutta l’America, sempre con mezzi di fortuna, in particolare servendosi di fortunosi passaggi clandestini sui treni merci, rischiando la vita, e nella migliore delle ipotesi di essere cacciato dal personale di controllo. Spesso capro espiatorio nel mirino delle forze dell’ordine. Ha incominciato ad affermarsi come fenomeno diffuso negli ultimi decenni del XIX secolo, e in alcuni momenti successivi di crisi economica cruciali per il paese, in particolare quella del 1929. Questo perché la mancanza di lavoro, le pessime condizioni economiche inducevano spesso intere famiglie, o singoli individui, a spostarsi per il paese, per un mero fatto di sopravvivenza. Si fermavano dove trovavano temporanee condizioni che permettessero loro di vivere, raramente mettevano radici, e poi ripartivano. Nel 1890 il termine hobo, con cui viene designata questa figura, era già largamente in uso.
L’etimo è incerto, ma può essere interessante elencarne alcuni possibili: uno, secondo me piuttosto improbabile, farebbe derivare hobo dal latino homo bonus; un’altro sarebbe una contrazione di Hello brother, accorciata poi in “Lo bro”, “Lo bo”, e infine “O bo”, cui poi si pensò di aggiungere una acca, per dare più forza alla O. Secondo un’altra ipotesi ancora hobo sarebbe una contrazione dell’usuale saluto “Ho, boy” e infine potrebbe derivare dal tedesco hoboe, (oboe) e appare verosimile perché molti dei lavoratori stagionali, tagliaboschi e braccianti agricoli erano immigranti tedeschi, suonatori di oboe.

Talvolta vive di espedienti, spesso è un lavoratore stagionale, occupato nelle fattorie nel periodo dei raccolti, ma anche in altri settori: gli hobo dei primordi nella costruzione dei binari delle ferrovie, o lavoratori nelle miniere, perfino nella mitica corsa all’oro nel Klondike. Non si può tuttavia definire l’hobo come un vagabondo qualunque. L’hobo ha una sua etica, vuole senz’altro vivere fuori dagli schemi, senz’altro la sua è una condizione marginale, ma quello che lo spinge a sopportare tutti i disagi e le difficoltà che una vita girovaga comporta è uno smodato amore per la libertà e la sete di esperienze sempre nuove senza padroni, senza proprietà e senza catene di alcun tipo.

Come è noto, la casa discografica di Mimmo Locasciulli si chiama Hobo. Nata nella metà degli anni ottanta come casa di produzione, diventa nel 1994 casa discografica. Dell’attività di produttore di L. in passato e dei nuovi progetti futuri, differenti dai precedenti, e non ancora realizzati, si è già parlato in altre occasioni; di ciò che ha comportato per l’artista e per la sua indipendenza poter pubblicare i suoi lavori con una propria etichetta indipendente, pure, come si è fin dagli esordi di questo lavoro, fatto riferimento al “mitico” studio di registrazione di campagna, con tre (?) finestre che si affacciano su un panorama mozzafiato (cito parole tratte da un’intervista a M., non è una definizione mia: non ricordo il numero esatto delle finestre, ma avendo visto sia la famosa "lezione d’autore" , sia il bel video de Il futuro, che hanno come cornice la casa di campagna, dove è situato anche lo studio di registrazione, non posso che confermare: panorama davvero mozzafiato e non solo panorama, anche gli interni e gli arredi sono molto belli, con una cura tutta femminile per i tessuti e i particolari. Anche lo studio di registrazione si chiama Hobo, e la scelta del nome è da parte di M. un evidente omaggio sia a Dylan e alla canzone citata, che al fascino esercitato su di lui dalla cultura Hobo, e dai suoi esponenti, molti sconosciuti e che non hanno lasciato traccia evidente, ma molti noti, come ad esempio lo scrittore dalla vita avventurosa Jack London, che tra le tante esperienze di una vita movimentata annovera anche quella di hobo: ne parla in prima persona nel suo La strada, del 1907, raccolta di racconti dove appare evidente la profonda attrazione per questo tipo di vita libera e avventurosa. London partecipò anche alla mitica corsa all’oro nel Klondike, per quanto forse per lui abbiano più contato le tappe del viaggio e l’osservazione del fenomeno, che non l’esperienza di cercatore d’oro in sé, nella quale pare non si sia troppo impegnato. La profonda attrazione per quel tipo di vita non gli impedisce tuttavia di assumere, nel suo articolo Quello che la vita significa per me, apparso nel 1905 su “The Comrade” una posizione critica nei confronti di quella vita che tanto lo aveva affascinato. “Divenni un vagabondo, mendicando di porta in porta lungo il mio cammino, vagando per gli Stati Uniti e sudando sangue nei bassifondi e nelle prigioni…” "Ero precipitato nella cantina della società, nelle profondità sotterranee della miseria di cui non è bello, ne' decente parlare. Ero nella fossa, nell'abisso, nella fogna umana, nel mattatoio e nell'ossario della nostra civiltà. Questo è il lato dell'edificio della società che la società preferisce ignorare".

Impossibile poi non fare riferimento a Furore di John Steinbeck, del 1939, considerato il suo capolavoro, che racconta il viaggio disperato di un’intera famiglia che, spinta dalla fame negli anni della grande depressione, attraversa l’America lungo la mitica Route 66, partendo dall’Oklahoma fino alla California, idealizzato paese del latte e del miele che non si rivelerà tale. Dal libro è stato tratto un film di John Ford del 1940, vincitore di due Oscar, con Henry Fonda. Altro riferimento imprescindibile è il celeberrimo On the road di Jack Kerouac, uno degli autori della cosidetta Beat generation, pubblicato per la prima volta nel 1957, amatissimo dai giovani della generazione di M. e non solo, un’autentica opera di culto che ha influenzato le fantasie e la realizzazione delle stesse, portando molti giovani a ripercorrere esperienze simili a quelle descritte (e realmente vissute) da Kerouac nel libro. Anche l’itinerario di Sulla strada si snoda sulla Route 66.

La cultura hobo si è espressa attraverso varie altre forme artistiche e di comunicazione: la poesia, in forme alquanto semplici e immediate, la pubblicazione di giornali clandestini, la musica. Il suo cantore più noto è senz’altro Woody Guthrie, originario dell’Oklahoma, che a tredici anni si mise in cammino verso il sud adattandosi a svolgere ogni genere di lavoro stagionale e occasionale e al contempo suonando l’armonica e più tardi la chitarra, per strada o nei locali. Partendo dalla sua esperienza e da quelle dei tanti incontrati sul suo cammino, incominciò a comporre le sue ballate che avevano come tema le storie dei battitori di cotone, degli operai delle fabbriche delle scatole di latta e dei contadini proprietari spodestati dai loro campi; degli scioperi e degli scontri con la polizia, del carcere e della fatica di campare. In giro per l’America, con la sua chitarra e la sua armonica, cantava le storie in cui tantissime persone si riconoscevano.
Conquistato dall’opera di Steinbeck e dal film omonimo, ne narrò nei suoi versi le vicende e le atmosfere, per renderle accessibili a chi non poteva comprare il libro o andare al cinema.

Woody Guthrie scrisse un libro, Bound for Glory, in cui racconta proprio il suo girovagare. Dal libro, nel 1976, fu tratto un film uscito in Italia col titolo Questa terra è la mia terra, con David Carradine a interpretare Guthrie.
Un altro celebre film del 1969, Alice's Restaurant, vede protagonista il figlio di Guthrie, Arlo e la partecipazione di Pete Seeger, entrambi nel ruolo di sé stessi. Il film è ispirato a un blues autobiografico dello stesso Arlo, ed è uno specchio fedele del clima dell'America di quegli anni. Seeger, che G. incontrò negli anni trenta a New York, quando entrò in contatto con una cerchia di intellettuali di sinistra interessati alle tematiche sociali e alla ricerca delle radici della musica folk americana, divenne un suo grande amico. Personalità davvero interessante, vanta anch’egli una lunga carriera di folksinger, e di insigne musicologo. Ancora attivo, sembra portarsi benissimo i suoi novant’anni.

Il logo della Hobo di Mimmo è un omino stilizzato col cappello e col bastone. Il cappello è uno degli elementi distintivi dell’hobo, sebbene non ce ne sia uno in particolare che lo caratterizzi, come il fagotto, o più praticamente lo zaino e il sacco a pelo e un abbigliamento pratico e resistente, date le condizioni in cui l’hobo si trova a muoversi, ma non privo di varianti e di una certa originalità.
M. non è l’unico a essere stato influenzato anche nella scelta del nome di una sua attività dal termine hobo. Mi risulta però che sia stato il primo. Nel corso di questa ricerca ho individuato una piccola casa editrice con sede a Rieti che si chiama Hobo, e dato il nome, pensavo a un particolare tipo di pubblicazioni: non ho trovato notizie al riguardo. A Roma, si trova L’Hobo Artclub, uno spazio che è insieme luogo di ritrovo, e di aggregazione, dove si può mangiare e bere, e dove si può assistere a concerti acustici, e insieme spazio espositivo o aperto alla realizzazione di altro tipo di eventi culturali. M. sicuramente lo conosce e magari gli è capitato di frequentarlo.

A parte la malia esercitata su M. dagli aspetti migliori della cultura hobo e cioè l’amore per la libertà e per una vita fuori dagli schemi, ma nel rispetto del prossimo, lontana da forme di prevaricazione, in che cosa il nostro artista è stato influenzato da questo modo di vedere la vita? Certo nella sua produzione, molti elementi si possono riscontrare, sia nei contenuti, che nella costruzione di certi schemi musicali, e nell’uso di alcuni strumenti utilizzatissimi dai folksinger americani, armonica in primis.

La sua vita fantastica sicuramente è molto hobo, la sua vita reale, o meglio, una parte di essa, quella in cui si può dare meno spazio alla fantasia e a una certa sregolatezza, ma è necessario invece essere totalmente rigorosi e precisi, per ovvi motivi, no.
La passione per il viaggio, inteso come esperienza totalizzante in cui ci si immerge nella realtà che si visita, nel modo più partecipe possibile, la tendenza a un costante dinamismo alla ricerca di esperienze nuove e appaganti, non scontate, sono hobo. Una certa irrequietezza, un continuo desiderio di andar vagando, di non fermarsi, di non perder tempo a dormire, sono hobo. Scherzosamente potrei dire che sia affetto da una forma leggera e non preoccupante di dromomania e di drapetomania, anche se lui, nel secondo caso, ha spesso l’impulso di allontanarsi da casa, ma quando è distante ci pensa sempre, e ne sente il calore e il profumo, e non vede l’ora di farvi ritorno.

Certo Mimmo, almeno allo stato attuale, non viaggerà con lo zaino in spalla, col sacco a pelo, e non soggiornerà in ostelli economici, anche se secondo me, il nostro personaggio, pur abituato a certi agi, è uno che sa anche adattarsi, fatte salve alcune condizioni essenziali. Forse da ragazzo anche lui avrà fatto i suoi viaggi on the road, col sacco a pelo, in autostop o in economiche carrozze di treno, o con una macchina un po’ male in arnese, con gli amici e con la chitarra. Magari sarà andato in Norvegia, a far visita al suo amico folksinger studente di architettura a Perugia cui deve la sua iniziazione al folk, e insieme avranno fatto il rituale pellegrinaggio a Capo Nord, caposaldo di ogni bella gioventù di quegli anni, e non solo, magari leggendo pagine di Kerouac e cantando canzoni di Dylan. Un sacco di gente c'è andata e ci va in moto, a Capo Nord.
Ecco, non so perchè, e come al solito tutto è basato su sensazioni, ma Mimmo motociclista proprio non ce lo vedo, ne' ora, ne' in passato. Al massimo su una Vespa 125.
Grazie a Guido, che nel lontano 1981, quando ero una ragazzina molto convinta di sapere un sacco di cose, mi "portò" a vedere "Questa terra è la mia terra" che lui aveva visto anni prima. Mi voleva comunicare un mondo; mi ha comunicato tantissime altre cose, che forse ho colto meglio, in primis la farinata e i crostini toscani che "come li fa lui nessuno." Dal Cineclub San Michele di Cagliari, fuggimmo prima del morettiano dibattito.
Anche ora, con molti più anni, sono una donna profondamente convinta: di non sapere nulla.

Elenco blog personale